L’intervento del Prof. Lorenzo Bernini in occasione dei 30 anni di Omphalos LGBTI

Lorenzo Bernini è un filosofo politico e un teorico queer italiano. Attualmente professore associato presso l’Università di Verona, è noto principalmente per i suoi studi sul rapporto tra politica e sessualità, analizzati attraverso strumenti filosofici e psicoanalitici.

 

Innanzitutto, grazie a Omphalos, grazie per avermi voluto qui con voi – qui a Perugia, nella città di Sandro Penna: «felice chi è diverso»! Per me è un onore festeggiare i trent’anni di attività di una realtà tanto importante sul territorio italiano – trent’anni di cui dovete essere orgogliose/i/ə, e che mi inducono ad andare ancora più indietro nel tempo, a ripercorrere con voi la grande e gloriosa storia di quelli che oggi chiamiamo movimenti LGBTQIA+, in cui la grande e gloriosa storia di Omphalos si inserisce.

Questa storia inizia a metà Ottocento. E non è un caso. Perché come ci insegna Michel Foucault, il grande filosofo precursore delle teoie queer, l’Ottocento è stato il secolo in cui i saperi medici, psicologici, psichiatrici hanno istituito quel regime di verità della sessuologia in cui la sessualità diventa una questione di identità. Nella prima modernità, infatti, i tribunali dell’Inquisizione punivano la sodomia con il rogo, ma la sodomia era intesa come un reato e un peccato: come un atto contro la volontà divina, non come un’identità. Come qualcosa che si fa, non come qualcuno che si è. Persino l’ermafroditismo era pensato come trasgressione delle leggi di natura, come esito di un patto o di un amplesso col diavolo. Furono i sessuologi ottocenteschi a solidificare le atipicità del sesso in malattie, intese allora come tare ereditarie permanenti. E paradossalmente, fu questa patologizzazione delle identità a fornire i primi argomenti per la depenalizzazione della sodomia. Se non danneggiano altri, chiedeva il fondatore del Comitato scientifico umanitario di Berlino Magnus Hirshfeld, pioniere dei nostri movimenti – se non danneggiano altri, perché punire condizioni patologiche immutabili che non dipendono da scelte e volontà?

A sfidare questa concezione innatista fu Sigmund Freud all’inizio del Novecento. La psicoanalisi ha istituito un regime di verità diverso da quello della sessuologia ottocentesca precedente, sostenendo che le inclinazioni sessuali non dipendano solo dal patrimonio genetico, ma maturino nella prima infanzia attraverso processi di identificazione con le figure genitoriali e l’ambiente sociale. Nella Germania nazista e nell’URSS stalinista, sulle teorie freudiane ebbe tuttavia la meglio una sessuologia degenerazionista di stampo ottocentesco, e la tesi innatista fu usata come giustificazione non solo per le terapie repressive già in uso nell’Ottocento (dalla somministrazione di bromuro, alla clitoridectomia, alla lobotomia), ma anche per lo sterminio delle minoranze sessuali nei lager e nei gulag. Il Comitato scientifico umanitario di Berlino fu devastato il 6 maggio 1933 dalla gioventù hitleriana. E Hirshfeld morì in esilio a Nizza.

Esattamente come Freud, che riparò a Londra da Vienna dopo l’annessione dell’Austria alla Germania. La psicoanalisi, considerata dai nazisti un sapere ebraico degenerato, fiorì allora negli Stati Uniti, e si diffuse in tutto l’occidente nel secondo dopoguerra. A prevalere fu però, per lungo tempo, una versione omolesbobitransfobica della psicoanalisi: la tesi del carattere acquisito e non innato delle identità sessuali rese possibile teorizzare – in contraddizione con quanto aveva affermato Freud – che l’omosessualità e la transidentità possano essere curate, che l’eterosessualità possa essere riparata, che i bambini intersex possano essere convertiti in femmine dalle terapie ormonali, dalla vaginoplastica e dall’educazione.

In questo contesto maturò una nuova ondata di attivismo delle minoranze sessuali che, con le donne, le minoranze razzializzate, i/le giovani antiautoritari, presero parte alla rivoluzione della società. Se nella seconda metà dell’Ottocento la sede delle prime rivendicazioni era stata Berlino, questa volta la protesta divampò a New York, allo Stonewall Inn, il 28 giugno 1969 – che è la data che ogni anno festeggiamo nei nostri Pride. Si aprì così quella stagione di lotte che da lì a poco condusse anche alla nascita dei movimenti di liberazione lesbici, gay e trans italiani, di cui i movimenti e i centri LGBTQI+ italiani, Omphalos incluso, sono eredi. Anche in Italia abbiamo avuto la nostra Stonewall. Il trentennale di Omphalos coincide con il cinquantennale della prima manifestazione pubblica organizzata dal Fuori, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano: la protesta di Sanremo del 5 aprile 1972, a cui presero parte una ventina di coraggiosissimə lesbiche e gay, più Mario Mieli che oggi diremmo persona non binaria, contro un congresso internazionale di sessuologia in cui venivano proposte le terapie riparative.

Nel clima effervescente degli anni Settanta, il nuovo attivismo lesbico, gay e trans non poteva infatti più accontentarsi di far leva sulla patologia per reclamare tolleranza. Maturarono invece quelle rivendicazioni che sono ancora le nostre: la depatologizzazione, l’abolizione di leggi discriminatorie e l’approvazione di leggi antidiscriminatorie, la possibilità di cambiare genere anagrafico, e di cambiarlo senza obbligo di chirurgia, il divieto delle mutilazioni genitali sui neonati intersex, l’accesso ai diritti matrimoniali per le coppie lesbiche e gay, la concessione della protezione internazionale alle persone migranti LGBTQI+ discriminate e perseguitate… Mentre tutto questo maturava, scoppiò la crisi dell’AIDS e di fronte alla tragedia emersero nuovi bisogni di relazione, di sostegno reciproco, di servizio, di comunità, di solidarietà. È in questo periodo, nel 1992, che si colloca la fondazione di Omphalos il cui primo nome era infatti “Circolo di Solidarietà Totale”: trent’anni fa non solo non c’erano le profilassi post e pre esposizione, la PEP e la PREP, ma non c’erano neppure le terapie antiretrovirali per bloccare la replicazione del virus HIV, che furono introdotte nel 1996. Uomini gay e donne trans morivano come mosche – nel disgusto generale. L’AIDS rendeva reale l’immaginario di morte che quella che la grande pensatrice lesbica Monique Wittig chiama “la mente straight”, la mente eterocispatriarcale, associa da sempre a chi trasgredisce le sue leggi.

Ne è passata di acqua sotto i ponti. Nel maggio 2020, con il primo allentamento del lockdown, quando è stato possibile finalmente a far visita a parenti e congiunti, ma non ad amici e conoscenti, nella categoria dei congiunti sono rientrati anche le partner e i partner delle coppie lesbiche e gay civilmente unite. Come se, da una crisi sanitaria a un’altra, dall’AIDS al Covid, la liberazione degli uomini gay dallo stigma degli untori fosse stata barattata con la loro rinuncia a farsi rappresentanti della sperimentazione di stili di vita differenti dalla famiglia nucleare… Ma l’acqua sotto i ponti non è passata dappertutto allo stesso modo. Mentre la trasmissibilità per via sessuale del vaiolo delle scimmie rinnova lo stigma sul sesso gay e trans, è bene ricordare che la pandemia di AIDS non è mai finita, e che se nei paesi ricchi è possibile oggi proteggersi preventivamente dall’HIV o controllare l’infezione dopo il contagio, nel continente africano l’accesso ai farmaci resta privilegio di pochi, e di AIDS si continua a morire.

L’acqua sotto i ponti, dicevo, non è passata dappertutto allo stesso modo. In alcuni paesi del mondo, nel giro di soli cinquant’anni le rivendicazioni dei movimenti LGBTQIA+ hanno condotto a risultati importanti. La depatologizzazione dell’omosessualità e delle variazioni di genere decretate dall’OMS rispettivamente nel 1990 e nel 2018 sono pietre miliari delle nostre conquiste. Così come lo è la condanna delle mutilazioni genitali sui neonati intersex espressa nel 2006 dalle società di endocrinologia pediatrica europea e statunitense. Non dobbiamo però dimenticare che in 68 paesi del mondo la sodomia è ancora criminalizzata, che in 11 è punita con la pena di morte, che in 41 è vietato fondare un’organizzazione LGBTQIA+, che in 67 non è consentito il cambio di genere; e che in buona parte del pianeta – tra cui l’Italia – le mutilazioni genitali sui neonati intersex sono ancora praticate. Solo 4 paesi proibiscono per legge queste mutilazioni, solo 3 proibiscono per legge le terapie riparative – che in compenso sono state ripudiate dall’American Psychiatric Association nel 2000 e dall’Ordine Nazionale degli Psicologi italiano nel 2008.

La storia dei movimenti LGBTQIA+ non è dunque finita. E questa storia deve farci riflettere anche su quanto recenti e quindi fragili siano le nostre libertà, su quanta forza sia necessaria non solo per ampliare, ma anche per difendere i diritti conquistati. Nella Berlino degli anni Venti, come a Mosca subito dopo la rivoluzione bolscevica, soffiavano venti di libertà – poi venne Hitler, poi venne Stalin, poi vennero i lager e i gulag. All’entusiasmo politico degli anni Settanta, negli anni Ottanta fece seguito la crisi dell’AIDS, che portò con sé un’ondata di feroce omolesbobitransfobia. La storia non si ripete, per fortuna. Ma anche oggi, anche nella parte fortunata del mondo in cui abbiamo il privilegio di vivere, vediamo segnali inquietanti, e non li dobbiamo trascurare.

Pensate alla sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti che nel giugno 2022 ha abolito la sentenza del 1973 che aveva reso l’aborto un diritto costituzionale. Cinquanta anni dopo. E pensate a quel fortissimo moto di reazione alle nostre conquiste che è la campagna antigender: una campagna transnazionale lanciata negli anni Novanta, mentre Omphalos muoveva i primi passi, come reazione alla depatologizzazione dell’omosessualità. Una crociata transnazionale che vede coinvolte la Chiesa cattolica, le Chiese ortodosse, molte chiese protestanti di tutto il mondo, assieme a movimenti neofascisti, populisti, di destra. Una crociata in cui i regimi di verità dell’inquisizione, della sessuologia degenerazionista e della psicoanalisi si intrecciano in combinazioni paradossali: oggi, nei discorsi antigender essere minoranze sessuali è assieme un atto, un’identità e una biologia, un peccato, un reato, una tara da reprimere, una patologia da curare.

Nel 2019, soltanto tre anni fa, quella kermesse internazionale dei gruppi antigender che è il World Congress of Families è stata ospitata a Verona, la città dove vivo e lavoro. Tra i relatori, c’era l’arciprete ortodosso Dimitri Smirnov, braccio destro di quel patriarca Kirill che nel febbraio scorso ha giustificato l’invasione russa dell’Ucraina sostenendo che con la guerra Putin sta difendendo il cristianesimo dai Pride LGBT. Ma sul palco c’erano anche l’allora vicepremier Matteo Salvini, e la probabile futura premier Giorgia Meloni. La stessa Meloni che in campagna elettorale oggi fa la moderata, ma che ancora nel maggio scorso, in Spagna per sostenere il partito di ultradestra Vox, ha inveito con il collo gonfio di rabbia contro l’immigrazione, contro l’aborto, contro l’ideologia del gender, contro la lobby LGBT. Ieri, come sapete, né la Lega, né Fratelli d’Italia hanno votato la risoluzione del Parlamento europeo contro Victor Orban.

La mente straight, la mente etrocispatriarcale, la mente fascista, è insomma ancora viva e vegeta. Ancora ci infesta con i suoi deliri. Di attivismo LGBTQIA+, di comunità LGBTQIA+ c’è quindi ancora un gran bisogno. Per difendere le nostre conquiste, per consolidarle e allargarle, per costruire, a partire dalle nostre differenze, dalla nostra queerness, un mondo nuovo e diverso. Tanti auguri quindi Omphalos, per i vostri primi trent’anni. E per i prossimi trent’anni. E per i prossimi ancora. E ancora. C’è necessità di voi.